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Gabrielli e quella promessa: “Tornare là dov’eravamo”

Era il 22 maggio 2015, la sera della retrocessione: il presidente indicò subito l’obiettivo da raggiungere. Riuscito l’assemblaggio fra vecchi e nuovi giocatori

Redazione PadovaSport.TV

Da Il Mattino:

Per capire cos’è stato, e cosa è, il Cittadella 2015/16 bisogna andare a ritroso con la memoria e focalizzare il momento in cui, battuto dal Perugia 2-0 al Tombolato e certificata matematicamente la retrocessione in Lega Pro, la sera del 22 maggio di un anno fa il presidente Andrea Gabrielli si presentò in sala-stampa e annunciò: «L’obiettivo adesso è quello di tornare in Serie B, dove abbiamo dimostrato di poter stare bene. E vogliamo farlo il prima possibile, perché la Lega Pro può rivelarsi un bagno di sangue». Se il patron non si perse d’animo allora, perché gli altri si sarebbero dovuti stracciare le vesti? Ecco, la “filosofia” dell’ambiente granata è questa e tale è rimasta, a dispetto dello schiaffo (pesante) subìto dopo sette campionati di navigazione, più o meno sofferta, nella cadetteria, uno schiaffo che avrebbe potuto produrre conseguenze pesanti per la vita stessa del club fondato dal compianto Angelo Gabrielli. Per provare a risalire, l'idea del presidente è risultata la migliore possibile: mantenere l'ossatura da categoria superiore della stagione che si era conclusa amaramente e ritentare la scalata con la maggioranza dei giocatori della B. Una volta resisi conto che non sarebbe stato possibile il ripescaggio (a beneficio del Brescia, che pure aveva chiuso al penultimo posto ma che veniva preferito, come poi è stato, in forza del bacino di utenza e della lunga storia nel mondo del pallone), il numero uno si è seduto attorno ad un tavolo e ha fatto un po’ di conti: l’ipotesi non era peregrina, considerato oltretutto che si potevano investire bene i soldi del “paracadute” (800 mila euro alla terz'ultima) assicurato alle retrocesse dalla Lega B. La mossa di Marchetti. Che la famiglia Gabrielli (oltre ad Andrea, il fratello Piergiorgio, presidente della squadra promossa in B con Glerean nel giugno 2000, e le sorelle Margherita e Mariangela) sia l’artefice dello straordinario “miracolo” di provincia è fuori discussione, ma all’interno del pianeta Cittadella si muovono e operano personaggi altrettanto fondamentali. Il principale è il direttore generale Stefano Marchetti, 52 anni, di Fontaniva, un passato più che discreto da calciatore (era attaccante), e oggi uno dei più preparati dirigenti nel panorama calcistico nazionale. Per lui, capace di scoprire o valorizzare talenti come Gabbiadini, Baselli, Piovaccari, Meggiorini, Ardemagni, Biraghi, Rubin e Cherubin, solo per citarne alcuni, restare all’ombra delle Mura, riferendosi alle parole pronunciate da Gabrielli, «è stata una scelta di cuore, anche se mai come nell’estate scorsa abbiamo corso il rischio di perderlo». Il suo “sì”, sofferto e alla fine liberatorio, giunse 27 giorni dopo la retrocessione. «Le richieste avute prima dal Cagliari e poi dal Carpi mi hanno fatto enorme piacere», confessò il diretto interessato. «Sono gratificazioni importanti per il mio lavoro. Mi sono preso del tempo per riflettere, perché c'era da smaltire la delusione per quello che è successo, e ho ponderato tanti elementi. Alla fine ha prevalso il legame che ho con il Cittadella e con la famiglia Gabrielli. E poi non mi andava di lasciare dopo una retrocessione». Non mollare mai. Marchetti è un direttore con la “D” maiuscola, nel senso che, quando deve andare dritto al cuore del problema, non si fa tanto pregare e dice le cose come stanno. «C'erano tanti punti da chiarire, in un ambiente che deve ritrovare gli stimoli per ripartire», spiegò dopo aver dato il suo ok a rimanere granata. E aggiunse: «Le questioni economiche sono importanti, ma quasi secondarie qui: ci sarà sempre qualche società che può spendere più di noi». Il suo è stato un lavoro certosino e in profondità, pigiando molto il tasto psicologico delle motivazioni per convincere i big dello spogliatoio a riprovarci. «Non prometto la promozione, ma una cosa sì: in questa rosa nessuno mollerà mai»: così si espresse una sera al Tombolato, dove nel sottopassaggio che porta agli spogliatoi fu allestita una bella tavolata per una grigliata fra dirigenti, staff tecnico, giocatori, collaboratori e giornalisti. Parole che oggi possono suonare come il “motto” istituzionalizzato del gruppo, considerata la risposta ricevuta dai giocatori. Dove il d.g. ha vinto la propria scommessa è stato nell’assemblaggio fra nuovi e vecchi. Prese ad esempio Alessandro Sgrigna, che pure aveva offerte in giro, per indicarlo come il simbolo della voglia di riscatto generale: «È un giocatore importante per noi, voglio e debbo credere che il senso di appartenenza che ha verso questa società sia lo stesso degli altri». Da Foscarini a Venturato. “Gli altri passano, il Cittadella resta”, slogan vecchio e abusato quanto si vuole ma più che mai d’attualità, riguarda anche il modo in cui si è voltato pagina, dopo la lunga “era Foscarini”. Marchetti, che pareva legato a filo doppio con il tecnico di Riese Pio X, ha pesato bene, in quei 27 giorni di attesa, il nome del sostituto, azzeccandolo (e non è una novità): Roberto Venturato. Anche in questa scelta il Cittadella si è dimostrato più avanti della concorrenza. Ha puntato su un tecnico serio, pragmatico, di poche parole, ma il cui curriculum non era certo altisonante (fiore all’occhiello sino al giugno scorso la doppia promozione dalla Serie D alla C/1 con il Pizzighettone, sulla cui panchina aveva esordito come allenatore). Gli ha messo a disposizione un organico di qualità, inserendo pedine fondamentali: via Valentini, Barreca, Pellizzer, Alessio Benedetti, Busellato, Rigoni, Kupisz, Stanco e Gerardi, ecco Alfonso, Salvi, Amedeo Benedetti, Pascali, Iori, Bobb, Chiaretti, Jallow e Litteri, a cui si sono aggiunti Nava, Zaccagni e Bonazzoli a gennaio. L’opera di fusione compiuta dal mister e dallo staff ha cementato gli uomini prima ancora che i calciatori. Il resto lo hanno prodotto i risultati, fondamentali per infondere nel Dna dell’organico i cromosomi vincenti e consolidare l’autostima. Non sappiamo quanto durerà la favola Cittadella, ma una cosa è certa: qui il seme del calcio sano, genuino, semplice e senza tanti fronzoli ha dato e continua a dare frutti copiosi. Il modello made in Citta non è facilmente esportabile, anche questo va ribadito: ma la sua redditività è tale che farebbe felici tanti altri club, che buttano via risorse a palate spesso restando con le briciole in mano.