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Il caso Azzini del 1958: cronaca di un’evitabile combine di fine stagione

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Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
Alessandro Vinci

Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Purtroppo, il celebre motto evangelico può calzare anche al Padova dei record della stagione 1957-1958, quello del terzo posto in Serie A. Come mai? A causa di una bricconata commessa da uno dei suoi pilastri: Renato Azzini, detto Giovanni.E' domenica 30 marzo 1958. Il Padova, che aveva ormai accantonato i sogni-scudetto ed occupava il secondo posto in classifica a meno sei punti dalla corazzata-Juventus a nove giornate dal termine (le vittorie, si ricordi, valevano ancora due punti), si appresta ad ospitare all'Appiani un'Atalanta invischiata nei bassifondi della classifica in piena bagarre-salvezza. Gli orobici, infatti, alla vigilia del match contro gli uomini di Rocco, occupavano la penultima piazza a quota 19 punti, ex aequo con la Sampdoria, ad una sola lunghezza di vantaggio dal Genoa fanalino di coda. La Coppa Uefa era ancora di là da venire (nascerà solamente tredici anni più tardi, nel 1971), poco male dunque perdere punti in graduatoria per Scagnellato e compagni, che però, sino a quel giorno, non avevano mai permesso a nessuno di espugnare la “fossa dei leoni”, nemmeno per magnanimità nei confronti di un avversario bisognoso di punti preziosi. Eppure l'Atalanta ci riuscì. E per ben 3-0, con gol di Ronzon e doppietta di Zavaglio. Una salutare boccata d'ossigeno per i bergamaschi, che guadagnarono due punti pesanti sulle genovesi, entrambe uscite sconfitte dai rispettivi incontri. Ma il sabato successivo ecco il colpo di scena: la Sampdoria ed il Verona (squadra nel frattempo raggiunta in classifica dall'Atalanta) si presentano di fronte alla Commissione di Controllo della FIGC riportando una voce secondo la quale la gara dell'Appiani sarebbe stata truccata, adducendo come testimone dei fatti l'indossatrice Silveria Marchesini, la quale altro non era che l'ex fidanzata del panzer Giovanni Azzini, membro ormai di lungo corso della linea maginot biancoscudata. La donna, adirata con quest'ultimo a seguito di un litigio avvenuto in settimana (c'è chi dice a causa di una mancata promessa di matrimonio), confessò di aver assistito alla pianificazione della combine della gara in questi termini: il lunedì antecedente al match, lunedì 24 marzo, Bepi Casari, ex portiere sia dell'Atalanta (1944-1950) che del Padova (1953-1956) ormai ritiratosi dal calcio giocato ma ancora in contatto con la dirigenza bergamasca, avrebbe incontrato presso un distributore di benzina in Via Piave a Brescia il famigerato faccendiere Eugenio Gaggiotti, figura arcinota alla Commissione FIGC poiché già coinvolto in numerosi illeciti calcistici negli anni precedenti. I due, dopo una breve chiacchierata, si sarebbero poi diretti verso il ristorante “Tre Camini” di San Zeno al Naviglio, sobborgo della città lombarda, dove avrebbero cenato con lo stesso Azzini, architettando così la combine, che sarebbe poi stata perfezionata a fine serata a casa della stessa Marchesini, che abitava proprio di fronte al distributore di benzina di via Piave. Ed in effetti, la prestazione di Azzini la domenica successiva lasciò proprio a desiderare, segnata da inconsueti e grossolani errori che permisero a Zavaglia, il suo uomo da marcare, di siglare una doppietta.L'avvocato Cesare Bianco venne dunque incaricato dalla Commissione di fare luce sul caso. Il processo ebbe inizio il 28 giugno successivo e si protrasse sino alla mezzanotte della sera seguente, quando il campionato era terminato da ormai un mese ed aveva visto l'Atalanta chiudere al penultimo posto, a quota 26 punti. Secondo il regolamento dell'epoca, l'ultima classificata della Serie A (in questo caso il Verona) sarebbe dovuta retrocedere direttamente in cadetteria, mentre la penultima avrebbe dovuto disputare uno spareggio-salvezza contro la seconda classificata della Serie B: il Bari, in questo caso. Una sorta di sistema “alla tedesca”, per intenderci. In attesa dell'esito del processo, nell'ambito del quale l'Atalanta, se giudicata colpevole, sarebbe stata retrocessa in Serie B, si optò quindi per programmare lo spareggio per il mese successivo: se gli orobici fossero stati assolti avrebbero giocato contro i galletti, in caso contrario, lo avrebbe fatto il Verona. Poteva dormire invece sonni tranquilli il commendatore Bruno Pollazzi, poiché il suo Padova (nel frattempo arrivato terzo, alle spalle della Fiorentina, per un solo punto) non era stato neppure indagato nell'inchiesta in quanto non al corrente delle presunte malefatte del proprio giocatore. Per quanto riguarda lo svolgimento del processo, Azzini e l'Atalanta sembrarono inizialmente venire messi spalle al muro dalle dichiarazioni della Marchesini e da quella di Pietro Torosani, proprietario della pompa di benzina di via Piave, spuntato improvvisamente come secondo testimone, che confessò di aver assistito a gran parte delle conversazioni avvenute tra Gaggiotti e Casari presso il suo impianto e di aver persino giocato una schedina con lo stesso faccendiere con il 2 fisso su Padova-Atalanta due giorni più tardi. Casari e Gaggiotti, che inizialmente avevano respinto le accuse, ammisero quindi di essersi incontrati quella sera, ma solo da amici, per vicende extracalcistiche. Azzini invece, continuò sempre a negare l'accaduto. Ma le parole di Torosani avevano ormai convinto i giudici che l'incontro non fosse stato casuale, come sostenevano i tre interessati. A quel punto, però, gli avvocati dell'Atalanta dimostrarono con un colpo di coda che i due testimoni sui quali si fondava l'impianto accusatorio avevano proferito le loro dichiarazioni sotto lauto compenso in denaro. Nello specifico tre milioni e mezzo da parte della Sampdoria alla Marchesini (fatto poi confermato da Augusto Crovetto, legale blucerchiato) e settecento mila lire, un appartamento in affitto ed un impiego a Milano da parte del Verona per Torosani, nel frattempo licenziato dal distributore di benzina (ed anche in questo caso arrivò la confessione da parte della società interessata, nella persona del dottor Carlo Bonelli). La situazione era chiara ma spinosa: l'impianto accusatorio aveva una sua coerenza, ma le testimonianze erano state dettate da una ricompensa in denaro, non propriamente una garanzia di trasparenza. Questa la decisione finale della Commissione: condanna sia per Azzini, al quale fu ritirata a vita la tessera FIGC, che per l'Atalanta, declassata all'ultimo posto in campionato e retrocessa d'ufficio in Serie B, oltre ovviamente a Casari e Gaggiotti, non perseguibili però dalla giustizia sportiva in quanto non tesserati (e nemmeno da quella ordinaria, poiché il reato di frode sportiva non esisteva ancora). Queste le motivazioni dell'avvocato Bianco a seguito della condanna: “È vero che i testi del caso-Azzini sono stati pagati, ma ciò non significa in linea giuridica che le loro deposizioni debbano finire nel cestino della carta straccia. Taluni fatti, come quello del convegno tra Gaggiotti e Casari al distributore di benzina, prima di raggiungere Azzini alla trattoria dei Tre Camini, sono stati provati”. Al contrario, da par suo, Azzini non esitò a manifestare il proprio sgomento: “Non è lecito infamarmi gratuitamente sulla base di testimonianze comprate. La sentenza mi ha lasciato di stucco. Persino il PM (l'avvocato Bianco n.d.r.), dopo che abbiamo portato le prove che le testimonianze a carico erano state pagate, si è trovato imbarazzato nel sostenere l'accusa. Casari, tutti lo sanno, è mio amico. Quanto a Gaggiotti lo conoscevo come un soggetto un po' strambo e cercavo di evitarlo il più possibile. Quella sera maledetta è capitato alla trattoria da solo e non è stato invitato da me. Per non parlare poi di Torosani: quel tipaccio è venuto a casa mia a patteggiare! Mi ha detto: “Quelli del Verona mi hanno offerto due milioni (ma in realtà erano, come già scritto, settecento mila lire n.d.r.), un appartamento in affitto ed un nuovo impiego. Tu cosa mi offri?” L'ho mandato al diavolo. La verità non si paga”. A seguito della sentenza, Azzini e l'Atalanta fecero subito ricorso alla Commissione d'Appello Federale. Un ricorso che però fu respinto in entrambe le istanze il 13 luglio successivo. Tutto rimase dunque invariato: Atalanta in B e Azzini squalificato a vita.Il giocatore biancoscudato però non ci sta. E' convinto della propria innocenza e continua la sua battaglia legale. Risultato? Ad oltre un anno e quattro mesi dallo svolgimento del processo, il 3 novembre 1959, la stessa CAF ridusse a due anni il periodo di squalifica del patavino, permettendogli così di poter tornare “in gioco” al termine della stagione allora in corso, il 13 luglio 1960. Contestualmente, l'Atalanta, nel frattempo ritornata in Serie A dopo un solo anno di purgatorio, venne prosciolta dall'addebito di responsabilità oggettiva. Ma in ogni caso, anche alla luce di questi ultimi sviluppi, l'effettiva riuscita della combine rimaneva plausibile.Come interpretare quindi lo sconto di pena concesso ad Azzini? Se l'illecito non fosse mai esistito, allora la condanna sarebbe dovuta essere cancellata del tutto, in caso contrario, confermata. La “via di mezzo” dei due anni potrebbe risultare dunque una sorta di “perdono” da parte della CAF nei confronti di Azzini. Ma queste sono solamente supposizioni. Il roccioso giocatore biancoscudato, ad ogni modo, tornerà al suo posto nella retroguardia dei panzer e collezionerà altre 65 presenze all'ombra del Santo, andando poi, a seguito della retrocessione in Serie B del Padova datata 1962, a chiudere la carriera al Brescia, società nella quale era cresciuto calcisticamente e tra le cui fila era rimasto sino al 1955.Morale della favola? Sarà stato più genuino ma, cari lettori, il calcio di una volta non era certo più pulito di quello odierno.