“La maledizione colpisce ancora”. Titolavano (erroneamente) così i giornali giovedì scorso, all'indomani della vittoria del Siviglia nella finale di Europa League contro i portoghesi del Benfica. Ma quale maledizione? La storia è ormai nota: è il 1962 ed il Benfica ha appena conquistato la seconda Coppa dei Campioni consecutiva. L'allenatore delle aquile, l'ungherese Béla Guttmann, avvicina dunque la dirigenza del club reclamando un premio per la conquista del prestigiosissimo trofeo. La risposta? Negativa. Una clausola del genere non era prevista dal contratto. Guttmann allora, furibondo, se ne va sbattendo la porta e lanciando un profetico anatema: “Di qui a cento anni il Benfica non vincerà mai più una Coppa dei Campioni”. Ecco perché, anche in caso di vittoria nella finale di Europa League della scorsa settimana, la profezia non sarebbe stata comunque smentita. Ad ogni modo essa sembra essersi “estesa” anche alla Coppa Uefa (la cui prima edizione, tra l'altro, prese il via nel 1971, nove anni dopo i fatti incriminati), avendo il Benfica, da quel lontano 1962, perso ben otto finali europee: cinque di Coppa dei Campioni e tre di Coppa Uefa. Un personaggio singolare, dunque, questo Béla Guttmann. Un personaggio che -sono in pochi a saperlo- ha allenato per una manciata di mesi anche il Padova nel corso della sua lunghissima carriera di allenatore, durata la bellezza di quarant'anni. Per narrare esaurientemente l'avventurosa vita del tecnico ungherese bisognerebbe scrivere un libro, cosa che, peraltro, fece lui stesso nel 1964. Guttmann nasce, sembra, il 27 gennaio 1899 a Budapest (allora territorio dell'impero austro-ungarico), figlio di una coppia di ballerini ebrei, che lo iniziarono presto alla loro attività, tanto che il giovane Béla conseguì la licenza di insegnante di danza classica a soli sedici anni. Ma al ballo egli preferì il calcio, sport che si stava diffondendo a macchia d'olio nell'Europa danubiana. Dopo essersi evidenziato come promettente centromediano tra le fila del Torekvés, nel 1919 passò all'MTK, con cui vinse il campionato ungherese in entrambe le due stagioni successive, prima di trasferirsi a Vienna, anche e soprattutto a causa del clima antisemita che Miklòs Horty stava instaurando in Ungheria. Tra il 1921 e il 1926 eccolo dunque vestire la maglia dell'Hakoah, la squadra ebrea della capitale austriaca, arrotondando lo stipendio con l'apertura di una scuola di ballo e conseguendo, tra l'altro, anche la laurea in psicologia. Nel 1925 l'Hakoah divenne una squadra professionistica e l'anno successivo si aggiudicò il campionato austriaco. Un successo senza dubbio importante, sulla scia del quale la squadra partecipò ad una tournèe nella East Coast statunitense, a seguito della quale, al pari di molti suoi compagni di squadra, Guttmann si accasò ai New York Giants, che gli avrebbero garantito uno stipendio molto superiore a quello che percepiva all'Hakoah. L'ungherese rimase a giocare negli Stati Uniti sino al 1932, aprendo, nel frattempo, uno spaccio di alcolici (cosa severamente vietata in epoca di proibizionismo), dando lezioni di danza e speculando in borsa, tanto da arrivare a perdere oltre cinquantamila dollari nel crack di Wall Street del 1929. Dopo aver concluso la carriera da giocatore tra le fila dell'Hakoah, ne vestì subito i panni di allenatore, ruolo che mantenne sino al 1938, con una parentesi olandese sulla panchina dell'Enschede tra il '35 ed il '37. Nel 1938 poi, a seguito dell'anschluss, eccolo tornare a Budapest, sua città natale, per guidare l'Ujpest, con cui vinse subito campionato e Mitropa Cup, ma lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale lo costrinse ad abbandonare nuovamente la madrepatria. Ciò che accadde nei sei anni successivi rimane ancora avvolto nel mistero. A chi gli chiedeva come riuscì a sopravvivere durante il conflitto bellico, ha sempre laconicamente risposto: “Fu Dio a salvarmi”. Dove visse dunque Guttmann? Probabilmente riuscì a sfuggire ai lager nazisti (cosa che invece non accadde a suo fratello maggiore) grazie ai contatti che aveva all'Hakoah, riparando in Svizzera, ma c'è chi sostiene che venne anch'egli internato. Ad ogni modo, Béla sopravvisse e già nel 1945 tornò in panchina, a Budapest, alla guida del Vasas. Poi, nei tre anni successivi, allenò i rumeni del Ciocanul, l'Ujpest (con cui vinse il campionato ungherese) e il Kispest, dove allenò campioni del calibro di Bozsik e Puskàs, prima di dimettersi in seguito ad attriti con gli stessi giocatori. E qui entra in scena la società biancoscudata, che di ungheresi sulla propria panchina ne aveva visti già otto nel corso dei suoi primi cinquant'anni di attività. Il 28 luglio 1949 ecco l'annuncio: Bèla Guttmann è il nuovo allenatore del Padova. Nell'occasione i giornali riportarono l'erroneo dato di un passato del neoallenatore biancoscudato alla guida della nazionale ungherese. Ma Guttmann non ne era mai stato allenatore, bensì, l'anno precedente, preparatore atletico. I suoi metodi di allenamento erano infatti rinomati per la loro efficacia e la loro originalità. Così come era originale il personaggio in sé. Il contratto che stipulò con il Padova non prevedeva alcuna retribuzione “fissa”, bensì dei premi-partita, concordati in base al risultato, da spartire con i calciatori ogni settimana. Il che si rivelò, almeno inizialmente, una scelta azzeccatissima, con il Padova che nelle prime nove giornate di campionato non perse nemmeno un partita, attestandosi al secondo posto, alle spalle della Juventus capolista. La città sogna, ma la settimana successiva arriva un tondo KO per 3 a 0 sul campo della Fiorentina. I biancoscudati però non si perdono d'animo, andando a superare Atalanta prima e Venezia poi. Una partita che rimarrà nella storia, quella contro i lagunari: rappresenta infatti la vittoria più larga mai ottenuta dal Padova in Serie A. 8 a 0 il finale, con poker di Prunecchi e doppiette di Vitali e Novello. Eh sì, era una squadra niente male quel Padova, che in attacco poteva anche contare su Curti (che era una mezzala, ma a fine stagione totalizzò ben 15 reti) e Celio. Una squadra offensiva, che mirava a tenere il pallino del gioco e, se possibile, dare anche spettacolo (filosofia antitetica rispetto a quanto accadrà dal 1954, cinque anni più tardi). Guttmann schierava i suoi con una sorta di 3-2-5, con i cinque d'attacco già citati supportati da Quadri e Matè, mediani d'altri tempi, alle cui spalle agivano tre tra Fuchs, Zanon, Rolle e Sforzin, per una sorta di “anticipazione” di quello che sarà l'MM ungherese, il modulo con cui la nazionale magiara monopolizzò il calcio mondiale nella prima metà degli anni '50 sotto la guida di Gusztàv Sebes. Ad ogni modo, dopo l'exploit nel derby, arrivò anche la terza vittoria consecutiva, all'Appiani contro il Bari, risultato che confermò il Padova in seconda posizione. 19 punti in 13 partite: un rendimento oltre ogni aspettativa. Il giovedì successivo, in infrasettimanale, ecco dunque l'ora del big match: all'Appiani arriva la Juventus di Jesse Carver, capolista ed imbattuta, che viaggiava a più cinque sugli uomini di Guttmann. Una gara da non sbagliare, dunque, per tenere ancora vivi i sogni di gloria. I bianconeri si rivelarono però un ostacolo troppo grande per la cenerentola della Serie A. 2 a 0 il finale in favore degli ospiti, con reti di Rinaldo Martino e Giacomo Mari (sì, proprio lui, uno dei futuri pilastri del Padova di Nereo Rocco). Seppur pronosticato, il KO con la Juve è un duro colpo per Zanon e compagni, che nelle successive quattro giornate riescono a racimolare due soli punti, frutto di altrettanti pareggi contro Bologna e Genoa. Il girone d'andata termina poi con la rocambolesca vittoria esterna sul campo del Como, con Celio e Vitali a replicare in zona Cesarini al vantaggio lariano firmato Rabitti. Gli uomini di Guttmann concludono così l'andata al quarto posto (ex aequo con la Fiorentina) a quota 23 punti, alle spalle delle “tre grandi” Juve, Milan ed Inter. In pochi immaginavano che nel girone di ritorno il loro rendimento sarebbe calato sensibilmente. Eh sì, perché dopo aver inaugurato la seconda metà della stagione con un pareggio interno contro l'Inter, due sconfitte contro Palermo e Sampdoria ed un fugace successo interno sulla Roma, inizierà per i biancoscudati un periodo nero, che li vedrà subire ben sette sconfitte consecutive e precipitare così al diciassettesimo posto, a più cinque punti sulla zona retrocessione. La società ha ormai perso la pazienza con Guttmann: il derby interno contro il Venezia, ultimo in classifica ed ormai rassegnato alla retrocessione, rappresenta l'ultima spiaggia per il magiaro. I suoi però non lo tradiscono, tornando alla vittoria grazie ad una tripletta di Josè Osvaldo Curti e salvando così la panchina dell'ungherese. Una panchina che però “salterà” due settimane più tardi, dopo i KO subiti a Bari (1 a 0) prima ed a Torino, contro la Juventus, (4 a 0) poi. Il 28 aprile dunque, a cinque giornate dal termine del campionato, la società comunica l'esonero di Guttmann “per fatti concreti, appurati da indagini ineccepibili, che intaccano direttamente la responsabilità personale dell'allenatore, in modo da far venir meno l'ampia fiducia in lui riposta”. Parole misteriose. Ma la sostanza non cambia. Al suo posto ritorna Pietro Serantoni, già alla guida dei biancoscudati nelle tre stagioni precedenti, che traghetterà la squadra verso un anonimo decimo posto finale. Esperienza a due facce, dunque, quella di Guttmann sulla panchina del Padova: girone d'andata “alle stelle”, girone di ritorno “alle stalle”. La stagione successiva lo ritroveremo al timone della Triestina, che condurrà al quindicesimo posto in campionato, per poi tornare a girare il mondo, allenando in Argentina, a Cipro ed in Brasile, ma rientrando nel frattempo in Italia tra il '53 ed il '56, alla guida di Milan (da dove verrà esonerato mentre la squadra era al primo posto in classifica) e Vicenza. Negli ultimi quindici anni della sua carriera allenò soprattutto in Portogallo, dove diresse, a due riprese, sia Porto che Benfica, consacrandosi definitivamente come allenatore di successo proprio con le aquile di Lisbona, con cui conquistò, come già detto, due Coppe dei Campioni consecutive nelle stagioni '60-'61 e '61-'62. Decise di smettere di allenare nel 1973, lasciando così il mondo del calcio dopo oltre 55 anni dagli esordi da calciatore. Si spense otto anni dopo, il 28 agosto del 1981, nella sua Vienna, la città che più amava, dove era tornato a vivere per trascorrere una serena vecchiaia. L'apporto e l'innovazione che diede al calcio questo stravagante allenatore ungherese è sotto gli occhi di tutti. Nel 2007 il Times lo annoverò tra gli otto allenatori di calcio più influenti del periodo postbellico. La sua figura, insomma, si fa ancora ricordare. A Lisbona ne sanno qualcosa.
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L’avventurosa vita di Bèla Guttmann, lo stregone del Benfica che passò anche per Padova
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