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Lello Scagnellato: semplicemente il Padova. Storia di un uomo, di un lavoratore, di un gran difensore

Lello Scagnellato: semplicemente il Padova. Storia di un uomo, di un lavoratore, di un gran difensore - immagine 1
Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
Alessandro Vinci

Se c'è un giocatore che ha incarnato, nel corso della propria carriera, il più autentico spirito del Calcio Padova, questo è Aurelio Scagnellato, l'uomo che ha collezionato più presenze in assoluto con la maglia biancoscudata: ben 364 tra campionato e Coppa Italia tra il 1951 ed il 1963. E già questo dato basterebbe a giustificare tale affermazione. Scagnellato ha rappresentato un'epoca, quella più fulgida della storia della società, quella del grande Padova di Nereo Rocco e dei suoi panzer. Il tutto con la fascia di capitano al braccio. Chi, se non lui, poteva esserne il proprietario? Lui che era approdato all'ombra del Santo appena ventenne e che con il passare degli anni si era sempre più confermato come il vero leader dello spogliatoio fino a diventarne il capitano dopo il ritiro di Gastone Zanon, lui che sul terreno di gioco era sempre in prima linea nel difendere l'inviolabilità della porta biancoscudata e che coordinava con autorità tutto il reparto (cosa mica di poco conto, dato il sistema di gioco di quel Padova)? Ecco, sia ben chiaro sin da subito: in campo Scagnellato ci andava giù pesante. Se chiedeste a Humberto Rosa se la storia della linea da non superare fosse realmente vera, vi risponderebbe in maniera evasiva, lasciando però trasparire un malizioso sorriso e sottolineando che a quei tempi il calcio era tutto fuorché un affare da signorine. Se lo chiedeste a Gastone Zanon, invece, la risposta sarebbe schietta ed affermativa: la linea c'era. Attaccante avvisato, mezzo salvato. Ne sa qualcosa Bruno Nicolè. Come Nicolè? Ma non erano compagni di squadra? Sì, esatto, ma quando l'ex enfant prodige biancoscudato tornò per la prima volta da avversario all'Appiani con la maglia della Juventus non ricevette un trattamento propriamente accogliente, come confidò egli stesso a Gianni Mura lo scorso marzo: “Quando tornai a Padova in bianconero, Scagnellato mi fece un'entrata terrificante. “Ma Aurelio, sei diventato matto?”, gli dissi in dialetto. E lui, sempre in dialetto: “La storia della riga la sai. Eri dei nostri. E tu l'hai sorpassata. Se al posto tuo ci fosse stata mia madre con un'altra maglia avrei buttato giù pure lei”. Frase ovviamente di facciata (ci auguriamo), quest'ultima. Ma, insomma, la sostanza non cambia. Altro testimone del temperamento del buon vecchio Lello è Mario Boetto, stellina delle giovanili biancoscudate di inizio anni '60: “Era incredibile come un uomo così mite, così pacifico, si trasformasse sul terreno di gioco. Gli ho visto tirare certe spallate, spedire tanti di quegli avversari sulle recinzioni a bordo campo... Ricordo in particolare un duello con l'interista Skoglund, che gli rispondeva per le rime...”. Ma questo, dopotutto, era lo spirito di tutto il pacchetto arretrato dell'epoca. Anche Azzini e Blason potevano infatti vantare una “fedina penale” di tutto rispetto. Roba da far concorrenza a Vinnie Jones ed al suo Wimbledon di fine anni '80, non a caso ribattezzato “crazy gang”. Occhio, però: Scagnellato non era un macellaio. Non picchiava per sadismo, né per fare del male. Certo, non risparmiava colpi proibiti e probabilmente non si sarebbe strappato le vesti nel vedere il suo avversario lasciare il campo, ma lo faceva per difendere la porta. Questione d'onore, questione d'amore. Lo faceva per portare a casa il pane, come ripeteva spesso a chi gli chiedeva il motivo di tanta irruenza. Era rimasto quello l'importante per lui. La Serie A? Il successo e la notorietà? Cose vacue e di poco conto per uno che aveva vissuto la guerra e capito cosa voleva dire lavorare per guadagnarsi un pasto caldo da mettere in tavola la sera. “Quando ero giovane si veniva da una guerra, c'erano sofferenze, c'era carestia, mangiare aveva davvero il significato di mangiare”, confidò a Pino Lazzaro nel 2002.Eh sì, non fu una gioventù spensierata quella di Lello, padovano DOC nato però a Fortezza (mai luogo di nascita fu più profetico), in provincia di Bolzano, il 26 ottobre del 1930 perché lì era stato trasferito per un breve periodo suo padre, ferroviere. Poi, ben presto, il ritorno a Padova, all'Arcella, dove Scagnellato ha abitato per tutta la vita. Le prime partite in patronato con un pallone di pezza sulla terra battuta (“sempre con le scarpe vecchie, le papusse le chiamavamo, mai le buone”), ed a diciott'anni ecco la prima proposta calcistica, da parte del Plateola (l'attuale Plateolese). “Perché no? Non sarebbe male portare a casa qualche centinaio di lire in più”, pensò il giovane Lello, che nel frattempo aveva già iniziato a lavorare come carpentiere prima e vetraio poi, dopo aver abbandonato gli studi al terzo anno del Bernardi (“era dura studiare, mio padre ferroviere, troppi sacrifici”, commentò).Il ragazzo ci sapeva fare, fu la Luparense, squadra di Serie C allenata dall'ex biancoscudato Renato Sanero, a reclamarlo nel '49. L'offerta era allettante, ma non sarebbe stato semplice coniugare i nuovi impegni sportivi con il lavoro. Un lavoro che nel frattempo era nuovamente cambiato: tornitore in un'azienda che produceva macchine agricole e cartellonistica stradale. Fortunatamente per Lello, il proprietario era un appassionato di calcio, e finì dunque per agevolarlo. La prima stagione non si rivelò però fortunata, e la squadra retrocesse in quarta serie. Impossibile prevedere quello che sarebbe accaduto l'anno successivo.Era la primavera del 1951, ed a Frank Soo, allenatore del Padova, giunsero ottimi pareri su Ciano Mazzuccato, compagno di squadra di Scagnellato. Il tecnico biancoscudato partì dunque alla volta di San Martino di Lupari con Gastone Zanon, capitano della squadra nonché suo “interprete”. Le voci non sbagliavano: buon giocatore Mazzuccato. Ma a colpire la strana coppia Soo-Zanon fu proprio lui: Scagnellato. Alla fine al Padova approdarono in tre: Mazzuccato, Scagnellato e Vittorio Scantamburlo (sì proprio il futuro scopritore di Alex Del Piero), ma solo Lello riuscirà poi ad esordire in prima squadra. La sua prima presenza è infatti datata 18 novembre 1951, si giocava Fiorentina-Padova, decima giornata di campionato. Nella testa, tanti dubbi: “Quando firmai per il Padova guadagnavo trentacinquemila lire al mese – confidò a Gigi Garanzini – contro le trentamila che prendevo da tornitore, ma chiesi un anno di aspettativa in fabbrica, perché non sapevo come sarebbe andata a finire. E il giorno del debutto in Serie A, a Firenze, avevo un concorso per un posto nelle ferrovie. Non ero sicuro di aver fatto la scelta giusta”. Invece fu la scelta più giusta che avrebbe mai potuto fare, sebbene l'esordio non si rivelò proprio indimenticabile: 3-1 il finale in favore dei viola, con doppietta di Galassi e rete di Ekner. Ma Lello ancora non poteva immaginare che avrebbe avuto altre 363 partite per rifarsi.Dopo una prima stagione di ambientamento (coincisa con la retrocessione della squadra in Serie B) nel corso della quale le sue apparizioni furono solamente sette, per il giovane Scagnellato arrivò il momento della consacrazione: 33 presenze nell'annata '52-'53. Vale a dire, tutte le partite di campionato disputate dalla squadra tranne una: quella del 12 ottobre sul campo del Treviso causa squalifica. Insomma, Lello si era conquistato la maglia da titolare. La numero 3. E la avrebbe tenuta ben stretta anche per i successivi due lustri. La sua ultima battaglia è infatti datata 13 settembre 1963: Potenza-Padova, prima giornata del campionato di Serie B 1963-1964. Nel mezzo, tredici anni di Padova e mille soddisfazioni. Ma mai quella del gol. D'altra parte, con un sistema di gioco come quello di Rocco, “l'idea era quella di stare ben coperti dietro, dura che noi difensori venissimo fuori da lì”, ipse dixit. Mai neppure una convocazione in Nazionale. Uno scandalo, considerando il livello dell'Italietta dell'epoca che, sotto la guida dell'ex biancoscudato Alfredo Foni, non riuscì nemmeno a qualificarsi per i Mondiali del '58. Ad ogni modo, nei suoi tredici anni in biancoscudato furono molte le possibilità di lasciare Padova per trasferirsi in società più blasonate quali Lazio, Juve, Inter, ma soprattutto Milan, dove Rocco cercò in ogni modo di portarlo con sé nel 1961. Ma Scagnellato era il Padova, ed il Padova era Scagnellato. Dopotutto, se i risultati erano stati quelli dell'epoca d'oro, era stato anche per merito suo, al di là dell'apporto fornito sul terreno di gioco. Nella celebre intervista televisiva di Gianni Brera allo stesso Rocco nel 1974, infatti, il paròn ricordò: “A Padova eravamo arrivati a tal punto che, tra insulti e fischi, sputi e rotture di pullman da parte dei critici del nostro sistema di gioco, mi presentavo in spogliatoio al martedì e dicevo: “Signori miei, non possiamo continuare in questa maniera, volete che smettiamo, che ricominciamo un altro tipo di gioco, facciamo anche noi il WM come gli altri?” Ricordo la risposta di Scagnellato: “Signor Rocco, siamo tutti con lei, continuiamo così che va bene”. Lello era un capitano vero, il capitano ideale. Insieme a Blason, il vecio di cui il paròn si fidava di più. E sappiamo quanto questo ruolo fosse rilevante in quello splendido rapporto tra squadra ed allenatore che si era venuto a creare. Perché di qualche figura fidata tra i suoi manzi Rocco ne aveva bisogno: “Era un gioco delle parti – racconta Scagnellato. A me e agli altri anziani del gruppo Rocco delegava volentieri delle responsabilità. Lui sapeva di andare fuori giri ogni tanto, quindi gli faceva comodo che qualcuno avesse l'autorità di riportare la calma, purché investito da lui”. Un martedì ad esempio, alla ripresa degli allenamenti dopo la gara della domenica, all'Appiani non si presentò Enore Boscolo. Il giorno dopo, quando il malcapitato tornò a farsi vedere, Rocco sbottò furioso: “Bruto mona d'un bruto mona, dove xe che te ieri ieri, chi te ga dado el permesso?” Boscolo non ebbe la forza di rispondere. Serafico arrivò allora Scagnellato: “Signor Rocco, scusi se mi permetto, ma è stato lei ad autorizzarlo. Ero presente.” “Bon, se te lo disi ti il caso è chiuso e Boscoleto xe perdonà. Per stavolta”, rispose il paròn. Sempre attento agli equilibri di spogliatoio, Lello. Sempre pronto a smussare gli spigoli ed a placare i ferventi spiriti, come quello del fumantino Humberto Rosa: “Quando mi arrabbiavo con qualcuno – ci racconta – lui veniva da me per calmarmi. “Te ghe rason” - mi diceva sempre - “Te ghe rason”. E ci riusciva. Aurelio era una persona squisita. Per questa sua prerogativa di evitare i conflitti e per il fatto che era molto religioso lo chiamavamo 'Padre Flanagan'”. Eh sì, era stato proprio lui a proporre a Rocco ed ai suoi compagni di andare a messa al Santo ogni domenica mattina prima delle partite interne. Una tradizione che si rivelò vincente. E ai compagni che in campo si lasciavano scappare qualche blasfemia di troppo non riservava certo occhiate benevole. Perché dietro a quell'immagine di arcigno difensore, dietro quel fisico temprato dal lavoro (quello con la elle maiuscola), c'era un uomo buono ed umile. Una persona con i piedi per terra che non amava mettersi in mostra, né tantomeno vantarsi dei propri traguardi. Eppure ne avrebbe avuto ben donde.Una volta appese le scarpette al chiodo, nel '64 assunse insieme ad Elvio Matè la carica di responsabile del settore giovanile al posto di Mariano Tansini e del suo vice Alfonsi, cacciati senza troppi complimenti da Serafino Montanari, nuovo tecnico della prima squadra. Ed il lavoro svolto dai due panzer diede i suoi frutti già due anni più tardi, quando la Primavera dei vari Bigon, Lazzaretto, Quintavalle e Lanciaprima andò a conquistare lo scudetto di categoria nel torneo di Serie B. Ma quel giorno a guidare i giovani biancoscudati dalla panchina c'era nuovamente Tansini, nel frattempo richiamato dalla società dopo l'esonero di Montanari, datato 11 gennaio 1966. Da allora, infatti, Scagnellato aveva iniziato a ricoprire il ruolo di segretario (con ampie deleghe sul calciomercato), che mantenne per più di sette anni, fino al termine della stagione '72-'73, quando venne licenziato in malo modo dall'allora presidente Marino Boldrin.Era l'inaspettata fine, dopo ben 22 anni, del matrimonio tra il Padova ed il suo storico capitano.Lello non impiegherà molto a trovare un nuovo impiego: pochi mesi più tardi entrerà infatti nei quadri dirigenziali del Petrarca, la squadra dell'Antonianum, dove lo raggiungerà tre anni dopo nientemeno che Berto Piacentini, storico massaggiatore biancoscudato che aveva ricevuto il benservito dalla premiata ditta Pastorello-Farina dopo ben 29 anni di onorato servizio. Nel '79, poi, la sua prima (ed ultima) esperienza da allenatore: negli ultimi giorni di novembre accetta di sedersi sulla panchina del Teolo, compagine di Promozione il cui presidente era Francesco Rebellato, ex dirigente biancoscudato di inizio anni '70. La sua avventura ai piedi dei colli durerà però solamente poche settimane, così come quella dello stesso Rebellato. Vicissitudini che un monumento del calcio padovano come Scagnellato non merita di vivere. Se ne rende conto nell'autunno dell''86 Marino Puggina, che lo riporta in società con la carica di segretario del settore giovanile. Lello dirà poi addio alla società biancoscudata vent'anni più tardi, dopo aver ricoperto anche il ruolo di dirigente accompagnatore della prima squadra. Il 10 luglio del 2008 si spegne all'età di 77 anni dopo lunga malattia. La morte: l'unico avversario impossibile da buttare giù anche per un arcigno difensore come lui. La sua ultima volontà fu quella che l'annuncio venisse dato a funerali avvenuti. Se n'è andato in punta di piedi, il buon Lello, dando un'ulteriore dimostrazione di umiltà: il suo pregio, il suo valore più autentico. Impossibile dimenticare una figura come la sua per quanto quest'uomo ha dimostrato sia dentro che fuori dal campo. Per questo sono stati (e sono tuttora) in molti a chiedere che gli venisse intitolato lo stadio del Padova. Tanto più se il nome attuale è l'anonimo “Euganeo”. Ragioni valide per cui questo cambio di denominazione non sia ancora avvenuto non ce ne sono. Ci si dovrà accontentare di quello della sala stampa, che gli è stata intitolata dal 12 ottobre del 2008, giorno in cui è stata affissa una targa in sua memoria sopra la porta d'ingresso. Perché il Padova non dimentica il suo capitano. E lo dimostrano anche i fiori deposti lo scorso 30 ottobre da una delegazione della neonata Biancoscudati sulla sua tomba al cimitero dell'Arcella prima di disputare un'amichevole contro la compagine locale. Ne sarà stato contento, Lello, da lassù. La bandiera di cui era doveroso parlare al principio di questa settimana che segna l'anniversario numero 105 della nascita di questa unica società.