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OLTRE i 90′ | Il primo calcio a un pallone

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A spasso tra i ricordi di un giovane tifoso degli anni ’90

Giacomo Stecca

Onestamente non so come io abbia fatto, ma essendo nato nel 1986 e avendo scoperto il mondo del calcio durante l’estate del 1994, ho vissuto otto anni della mia vita senza il pallone. A pensarci ora mi sembra una follia. Eppure è così. Fortunatamente in quell’incredibile estate di ventisei anni fa mio nonno ebbe la brillante idea di portarmi con lui, mentre eravamo a Lignano Sabbiadoro per le vacanze, nel suo bar preferito, a vedere una partita della Nazionale di Arrigo Sacchi. La prima in assoluto della mia storia di tifoso: Italia-Nigeria.

Non una partita qualsiasi, per cominciare il proprio percorso da supporter calcistico. Quel 5 Luglio seduto al tavolino del bar, sorseggiando un frappè alla banana, mi ero quasi autoconvinto di portare sfortuna. All’ottantesimo minuto l’Italia stava perdendo 1 a 0 contro la squadra africana guidata dall’olandese Clemens Westerhof, e nulla sembrava andare per il verso giusto, tant’è che al settantaseiesimo minuto l’arbitro aveva addirittura espulso Gianfranco Zola.

Sarebbe servito un ribaltone con la R maiuscola per raddrizzare un match stregato, e questo ribaltone in effetti arrivò: Roberto Baggio. Il numero dieci azzurro, decise di aver fatto soffrire abbastanza i milioni di tifosi italiani sparsi nel mondo, e al minuto ottantanove si svegliò.

L’azione del goal dell’1 a 1 l’avrò rivista migliaia di volte, ma lì, in quel preciso momento storico non capii molto la dinamica di gioco, vidi solo il tiro di Baggio partire e poi il bar si trasformò in una bolgia: una signora urlava quasi piangendo, due sconosciuti si abbracciavano e baciavano pur non essendosi mai visti prima di allora, mio nonno si era versato tutto il Tocai friulano sulla camicia e un pappagallo dentro una gabbia emetteva versi a caso. Un trionfo di suoni e immagini, che si ripetette a maggior ragione con il goal del 2 a 1 e che mi fece innamorare di quello sport.

Seppur il mondiale americano non finì come tutti gli abitanti dello “stivale” si aspettavano, quelle magiche partite (dall’ottavo di finale bostoniano alla stregata finale di Pasadena) mi rimasero dentro e non uscirono più, neppure quando il clima si fece più mite e il rientro in città sembrava ormai una certezza.

Tornato a Padova, stressai i miei genitori per giorni interi. Non volevo più saperne dello sport praticato fino a quel momento: il Karate. Volevo giocare a calcio. Mio papà, al tempo lavorava con il brand trevigiano Lotto, mi regalò i completi da gara del Padova e del Milan e io li indossavo orgogliosamente in casa giocando con qualsiasi cosa potesse assomigliare a un pallone. Mia madre capendo che se fossi andato avanti così avrei sfasciato tutti i mobili del salotto, e che della disciplina fondata nelle isole Okinawa non me ne importava nulla, decise di accontentarmi e un pomeriggio di inizio settembre mi accompagnò da un amico di famiglia, presidente di un piccolo club vicino a Ponte di Brenta, la San Marco Calcio, per capire cosa si potesse fare per questa mia nuova passione.

Mi ricordo perfettamente il dialogo di quel giorno, in quella sala di Piazzale Barbato, piena di trofei e targhe. Il dirigente del club mi illustrò come fare per iscrivermi al corso e, firmati tutti i documenti con allegata la mia prima fototessera di sempre, mi arruolò nella squadra dei pulcini, composta da ragazzini di otto anni, proprio come me.

Un paio di settimane dopo, arrivò il fatidico giorno del primo allenamento, ed io ero teso come mai mi fosse capitato prima, nella mia giovane vita. Più teso della vigilia di Natale. Più teso del primo giorno di scuola. Perché alla fine la scuola era solo scuola, il calcio una cosa seria.

Il ritrovo venne fissato per il pomeriggio ma io cominciai ad agitarmi già dalle prime ore del mattino, mentre ero tra i banchi delle elementari. Fortunatamente molti dei ragazzi in squadra con me li conoscevo già perché frequentavamo la stessa scuola, quindi andai al campo da gioco con loro, mi presentarono gli altri compagni e poi ci andammo tutti a cambiare in spogliatoio dove sentii per la prima volta quel profumo che solo chi ha giocato a calcio in provincia può capire.

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Non avendo ancora la tuta ufficiale della squadra per allenarmi, indossai il mio completo rossonero col numero 3 sulle spalle. E feci subito colpo. Al tempo difatti non era facile come adesso reperire una maglia da gioco originale e ai miei colleghi calciatori di otto anni quella divisa apparve come il santo Graal al professor Robert Langdon.

Mentre ci infilavamo gli scarpini, arrivò nello spogliatoio l’allenatore, disse di chiamarsi Francesco e con calma ci spiegò il programma di quella seduta di allenamento e più specificatamente l’obiettivo della stagione: “Divertirsi”, poi ci disse di seguirlo e finalmente uscimmo assieme verso il campo da gioco.

Fatta eccezione per i campi del mondiale americano, visti però solo tramite tubo catodico, quello era il primo terreno da gioco che ammiravo dal vivo. Era chiaro, fosse lontano anni luce dai terreni professionistici, basti solo pensare che non si vedeva neanche un filo di erba verde, come quella inquadrata dalle telecamere della RAI ogni due secondi durante la finale di Pasadena, ma in quel momento, mentre i mie tacchetti calcavano quel terriccio duro e scuro, mi sembrò il manto (non) erboso più bello del mondo.

Dopo esserci presentati, iniziammo con i soliti noiosi esercizi di riscaldamento e con un paio di giri del perimetro di gioco, il quale non era attorniato da capienti tribune come negli stadi ammirati in televisione, ma da qualche impalcatura di metallo, un boschetto e un paio di condomini gialli. A un certo punto, un ragazzo più giovane di mister Francesco, il suo vice, prese un cesto colmo di palloni, e lo svuotò in mezzo al cerchio di centrocampo. Una ventina di sfere bianche e nere (una volta lo schema colori ufficiale era solo quello) rotolarono verso di noi.

Per la prima volta in vita mia toccavo un pallone da calcio vero e proprio.  Non era una pallina da tennis o una copia fatta con lo skotch, ma una vera e propria sfera da giuoco, come quelle  inseguite e calciate dai miei eroi della Nazionale Italiana solo pochi mesi prima.

A distanza di più di vent’anni ricordo indelebilmente l’emozione provata nell’accarezzare con la mia scarpetta destra marcata Diadora quel piccolo mondo. Ricordo la sensazione di libertà nel correre con la palla ai piedi lungo un campo che mi sembrava infinito, quanto quello che si vedeva tutti i giorni su Italia Uno, nel cartone animato di Holly e Benji. Quel pomeriggio di settembre del 1994 mi sentii molto incapace: non riuscivo a controllare bene, a palleggiare, a direzionare i mie lanci verso i compagni di squadra, ma direi che non fu una giornata inutile, perché con la pratica e con il tempo migliorai, tutto sembrò diventare più semplice. Quasi automatico.

Quel primo allenamento e quel primo tocco del pallone furono poi i passi iniziali verso un mondo fatto di pomeriggi passati ad allenarsi con gli amici, con il sole o con il diluvio universale, con il vento o con la neve. Un mondo fatto di viaggi nelle macchine dei propri genitori, verso località mai sentite prima di allora, per disputare match contro squadre dai nomi più improbabili. Un mondo di patronati, docce fredde, rumore di tacchetti sul cemento, borsoni sporchi di fango, maglie da gioco con i numeri ricamati a mano, delusioni arrabbiature, gioie e tante altre cose che fino a quando vivrò rimarranno dentro la mia testa e dentro il mio cuore.

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