Amarcord

OLTRE i ’90 | Il vero Vlaovic (prima parte)

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A spasso tra i ricordi di un giovane tifoso degli anni '90

Giacomo Stecca

Un paio d’anni fa, nel mese di dicembre, ero a Valencia per correre la maratona cittadina quando mi accorsi come il mio hotel fosse proprio a due passi dallo stadio de Mestalla. Potevo non farci neppure una visita?

Lo stadio, costruito a inizio anni ‘20 è il più antico impianto calcistico spagnolo, ha una capienza di circa 50.000 posti e ha sempre ospitato le partite casalinghe di campionato, Coppa del Re e coppe europee del Valencia Club de Futbol. Il nome dal suono così affascinante deriva dall’omonimo torrente che scorre ancora oggi sotto la struttura dello stadio ed in tutto il quartiere.  La guida che mi accompagnò a visitare questo pezzo di storia calcistica spagnola iniziò dicendomi che l’impianto fu inaugurato il 20 maggio del 1923 in occasione di una gara amichevole tra Valencia e il Levante, l’altra principale squadra cittadina. Al tempo lo stadio aveva una capienza di 17.000 posti, portata a 25.000 quattro anni dopo. Durante la guerra civile spagnola fu usato come campo di assembramento e deposito. Seriamente danneggiato dal conflitto bellico, mantenne solo la struttura esterna.

Un’altra storia che non sapevo e che mi colpì molto fu quella riguardante la terribile alluvione del 4 ottobre 1957, dovuta all’esondazione del fiume Turia, causò danni seri agli impianti di illuminazione  e a quello idrico della struttura, oltre che ai seggiolini, agli uffici e agli spogliatoi. Dopo parecchi lavori di manutenzione l’impianto tornò operativo nel 1959, in occasione dell’amichevole tra Valencia e Stade Reims, vinta per 2-1 dai padroni di casa, in occasione delle festività tradizionali spagnole dette Fallas. Durante il tour ci venne detto che Il 23 agosto del 1969, su proposta del presidente Julio de Miguel, approvata in seguito da tutti i soci del club, lo stadio cambiò il nome in Estadio Luis Casanova in onore dell’omonimo ex presidente valenciano. Il 6 Novembre del 1994 però lo stadio tornò ufficialmente al nome originario dopo che a febbraio lo stesso Luis Casanova aveva scritto a Francis Roig, presidente in carica del Valencia, dicendosi favorevole all’ipotesi di ripristinare il nome iniziale per l’impianto di Avenuda de Suecia. Il giro stava quasi per terminare, mi ero già fatto distrarre dalla cappella per pregare, posta vicino al tunnel d’entrata in campo, cosa mai vista in uno stadio italiano, quando un altro dettaglio calamitò la mia attenzione e mi fece volare sulle ali dei ricordi. Sulle pareti della sala stampa, l’ultima stanza da visitare prima di prendere una boccata d’aria fresca sul “terrazzo dei festeggiamenti”, lessi una delle tante formazioni vittoriose dei Pipistrelli. Quella che sconfisse l’Atletico Madrid nella Finale di Coppa Del Re 1998/1999. Uno degli undici nomi scolpiti nel muro bianco della press room era quello di Vlaovic.

Vlahovic? No, non quello con l’acca che sta facendo impazzire i tifosi della Fiorentina e sognare quelli della Juventus. Goran Vlaovic, l’unico ed inimitabile attaccante croato che prima di togliersi grosse soddisfazioni con il Valencia e con la propria nazionale giocò 50 partite (segnando 18 goal) con la mia squadra del cuore: il Padova.

Goran nacque il 7 agosto del 1972, a Nova Gradiska, allora facente parte del territorio jugoslavo, poi diventato croato. Iniziò a tirare i primi calci al pallone già in giovane età. Come quasi tutti i bambini del mondo aveva il sogno nel cassetto di diventare calciatore, ma appena ebbe compiuto dieci anni i suoi genitori decisero di mandarlo in un collegio ecclesiastico, per far ricalcare al figlio le orme di uno zio da poco divenuto sacerdote. Goran, però, pur essendo credente, come dichiarato da lui stesso in alcune interviste, non vedeva nel proprio futuro le quattro mura di una chiesa. Lui vedeva i quattro lati di un rettangolo da gioco e, difatti, appena uscito dal seminario, indossò nuovamente le scarpe con i tacchetti per provare a inseguire il sogno di diventare un giocatore. Due ostacoli giganteschi si presentarono, tuttavia, sulla sua strada: la morte prematura della madre quando aveva solo dodici anni e la frattura della tibia, solo un anno dopo. Nonostante questi  dolorosi “imprevisti” che avrebbero scalfito chiunque Vlaovic riuscì, con sacrificio e determinazione, a debuttare tra i professionisti. Nel 1989, a 17 anni, con l’Osijek, la squadra in cui era cresciuto e che lo tenne tra le proprie file fino al 1991.  Con i Biancoblu il ragazzo di Nova Gradiska collezionò 24 presenze e 11 reti in due stagioni. Dopo essere rimasto fermo per circa un anno, a causa del servizio militare e della situazione politica nella neonata Croazia, nella stagione sportiva 1992-1993 venne acquistato dal team della capitale, il Croatia Zagabria, orfano di un giocatore del calibro di Davor Suker, emigrato in Spagna per giocare nel Siviglia assieme a un certo Diego Armando Maradona. Con quello che è l’attuale Dinamo Zagabria, Vlaovic partecipò alla prima storica edizione del campionato di calcio della Repubblica di Croazia. Il torneo ebbe luogo nella primavera del 1992, in concomitanza con la Guerra d’Indipendenza, che prima della sua fine, datata 1995, si portò via altre due persone molto vicine a Goran: la nonna e un cugino. Come si evince dalle righe precedenti, i momenti di gioia e quelli di tristezza, si sono sempre intrecciati nella prima parte di vita di questo coriaceo atleta e l’estate del 1992 non fece eccezione. Ancora scosso e turbato dall’inizio della guerra nel suo paese Vlaovic ricevette la prima chiamata dalla sua nazionale e vi esordì, a soli diciannove anni, il 5 luglio a Melbourne. In tre partite contro la rappresentativa australiana i croati persero due volte su tre, ma quello per lui fu solo l’inizio di una lunga serie di convocazioni con i Vatreni. Nella stagione successiva il Croatia Zagabria si laureò campione nazionale e Goran venne nominato miglior giocatore del torneo, vincendo anche il titolo di capocannoniere con 23 reti all’attivo. Una cifra che fu superata nella stagione seguente quando i palloni insaccati nella rete degli avversari divennero 29.  Questi numeri davvero importanti fecero sì che una squadra come l’Ajax, campione d’Olanda in carica, seguisse molto da vicino il giovane attaccante croato. Tutto sembrava fatto perché indossasse la casacca dei Lancieri nella stagione 1994-1995, quando Sergio Giordani e Piero Aggradi, rispettivamente Presidente e Direttore Sportivo del Calcio Padova si inserirono nella trattativa. I due dirigenti biancoscudati, ammaliati dalle qualità del centravanti, riuscirono a convincerlo, grazie anche all’appeal della serie A di quegli anni, a firmare con il loro club, appena promosso nella massima serie italiana, e a rifiutare l’offerta dei futuri Campioni d’Europa.

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