A Piero Pastore piaceva pensare in grande. Il calcio ed il cinema i due binari su cui far correre i propri sogni, le proprie ambizioni. Voglia di sfondare, volontà di potenza, di vivere inimitabile. Un esteta del pallone, verrebbe da dire, con quel fisico prestante ed atletico, quello sguardo da dongiovanni, l'immancabile brillantina sui capelli. Ma soprattutto, il fiuto del gol, da vero bomber di razza. Pastore aveva insomma la capacità di conquistare tutti coloro che ne ammiravano le gesta: i tifosi negli stadi prima, il pubblico femminile delle sale cinematografiche poi. Non è infatti errato considerarlo il primo calciatore-divo della storia del football nostrano. Un calciatore-divo made in Padova. O meglio: made in Calcio Padova.Dopo aver tirato i primissimi calci al pallone nell'Aurora-Padova insieme a suo fratello (tragicamente scomparso in seguito ad un contrasto di gioco), è infatti nel vivaio biancoscudato che il giovane Pietro (tutti però lo chiamano da sempre Piero), classe 1903, affina le sue doti da centrattacco, per poi esordire in gare ufficiali con la maglia della prima squadra poco più che diciottenne in occasione della trasferta di Legnano del 29 maggio 1921, ininfluente incontro che il Padova affrontava nell'ambito del girone di semifinale nazionale della Prima Divisione (la Serie A dell'epoca) '20-'21. Come mai ininfluente? Perché nelle prime tre gare del girone erano arrivate altrettante sconfitte, non lasciando ormai alcuna possibilità ai biancoscudati di passare il turno. “Perché dunque non testare qualche giovane di belle speranze?” fu il pensiero di mister Ernesto Peyer, alla sua prima stagione alla guida della squadra dopo aver appeso le scarpette al chiodo. Ecco dunque, a tre giornate dal termine della stagione, l'esordio di Pastore. Un debutto che però non si rivelò propriamente indimenticabile, con il Padova che rimediò la quarta sconfitta consecutiva. A peggiorare ulteriormente la situazione, la prospettiva di ospitare il Torino capolista ed alla ricerca di punti pesanti per ottenere il passaggio del turno sette giorni più tardi al Comunale. Il risultato sembrava scontato, invece i granata sottovalutarono il redivivo Padova che, dopo essere passato in vantaggio con bomber Giovanni Monti al 14', trovò il gol del raddoppio allo scoccare della mezz'ora proprio con... Pastore, alla prima marcatura della sua carriera. La prima di una lunghissima serie. A completare il punteggio di giornata, ossia un pregevole 4-1 in favore dei biancoscudati, ci pensarono poi nuovamente Monti e Turra, con rete della bandiera granata da parte di Calvi. Ultima gara dell'anno: il match interno contro il Mantova, altro incontro dall'irrilevante significato. Ed altra vittoria del Padova con Pastore in campo. 2-1 il finale, con reti di Toni Busini e dell'immancabile Giovanni Monti. Il ragazzo ci sa fare, i risultati lo testimoniano. Queste le sensazioni alla vigilia della stagione successiva, la famosa stagione 1921-1922, che il Padova disputò tra i ranghi del C.C.I. (Comitato Calcistico Italiano), dopo essersi affrancato dalla FIGC, al pari dei più prestigiosi club dell'epoca, in segno di protesta contro il numero sempre più elevato di squadre ammesse alla Prima Divisione. Solamente quattro saranno però le presenze stagionali del giovane Pastore, per gran parte del campionato scavalcato nelle gerarchie di Peyer da Leopoldo Conti, ventenne promessa del calcio italiano arrivata “in prestito” dall'Inter, che già all'età di diciott'anni aveva esordito in nazionale. Ma una volta ricomposto lo scisma CCI-FIGC, sarà la stagione successiva quella del salto di qualità per Piero, pronto a spiccare il volo verso le più ambite piazze del calcio italiano. L'arrivo dell'inglese Burgess in panchina è infatti una manna dal cielo per Pastore, le cui caratteristiche si sposano alla perfezione con la britannica concezione calcistica del nuovo tecnico, che nel corso del campionato lo impiega per 13 volte, la prima delle quali al quinto turno, contro la SPAL. Sette giorni più tardi, ecco il primo vero exploit della carriera del diciannovenne centravanti biancoscudato: sarà infatti una sua rete a regalare al Padova, ad un quarto d'ora dal 90', una prestigiosa vittoria sul campo della Novese Campione d'Italia FIGC della precedente stagione. E sarà un'altra squadra ligure, il Savona, a cadere sotto i suoi colpi sia all'andata che al ritorno. Insomma, è anche grazie ai suoi tre gol che il Padova riesce a classificarsi al primo posto nel proprio girone, accedendo così alle finali della Lega Nord contro le corazzate Genoa e Pro Vercelli. Ma in questa fase Pastore non verrà mai impiegato. Poco male, perché il suo nome è già finito su prestigiosi taccuini: quelli di Edoardo Agnelli, facoltosissimo ed ambiziosissimo neopresidente della Juventus. Ancora a campionato in corso, infatti, a Pastore viene recapitata una lettera: la società bianconera lo aspetta a Torino per un provino. Un'occasione da afferrare al volo: a fine campionato, con la scusa di essere stato assunto dalla FIAT, Piero parte per Torino. A presiedere il provino c'è Jeno Kàroly, il nuovo allenatore della Signora. Gli bastarono dieci minuti per comunicare alla società di procedere con il tesseramento. E mai scelta fu più azzeccata. Otto gol la prima stagione, quattro nelle prime cinque giornate della seconda. Poi il crac: è il sesto turno del campionato 1924-1925 e la Juve seconda in classifica ospita in Corso Marsiglia il Bologna capolista. Pastore porta in vantaggio i suoi già al 5', sembra il preludio di una giornata da incorniciare. Invece, poco dopo, un violento scontro con il terzino rossoblu Gasperi gli fa saltare il ginocchio. Il menisco è andato. La medicina sportiva non era certamente quella dei nostri giorni, in cui un tale infortunio si risolve di norma nell'arco di due-tre mesi. All'epoca, infatti, un problema del genere rappresentava solitamente il capolinea per un calciatore. Ma non è questo il caso di Pastore: la Juve affida il ginocchio del suo bomber alle cure dei professori Fasiano e Ferrero, due specialisti, i quali, dopo aver esaminato il caso, decidono di procedere all'intervento chirurgico, il primo del genere su un calciatore. Dopo un paio di mesi Piero torna a camminare, riacquistando poco a poco quel tono muscolare che sulle pagine dei giornali dell'epoca gli aveva fatto guadagnare appellativi quali “fulminatore di reti”, “terrore dei portieri”, “dinamitardo”. La potenza era infatti la caratteristica principale di Pastore, che, una volta rientrato in campo a quasi cinque mesi di distanza dal giorno dell'infortunio, si toglie pure lo sfizio di concludere il campionato con altre due reti, siglate nell'ultima gara della stagione contro il Derthona. Bomber Piero è tornato. Giusto in tempo per affrontare la nuova stagione. Una stagione che si rivelerà trionfale, con la conquista del secondo scudetto della storia della società bianconera. Ben 27 le reti che realizza in sole 22 presenze, inutile dunque sottolineare il suo fondamentale contributo nella vittoria del tricolore. Quale la più importante? Quella che porta in vantaggio i suoi nel vittorioso spareggio per l'assegnazione dello scudetto contro il Bologna del 1 agosto 1926, giocatosi solamente quattro giorni dopo l'improvvisa morte di mister Kàroly. I suoi 27 centri, però, non gli sono sufficienti per conquistare la vetta della classifica cannonieri. A superarlo è infatti il suo compagno di reparto: la gazzella Fèrènc Hirzer, a segno in ben 35 occasioni. Con una coppia offensiva del genere vincere lo scudetto diventa un gioco da ragazzi. A soli ventitré anni Pastore è all'apice della propria carriera. Infatti nella stagione successiva la Juve, orfana del proprio condottiero, non riuscirà a replicare il successo tricolore dell'anno precedente, complice anche il celebre “Caso Allemandi” che, oltre a scucire lo scudetto dal petto del Torino, vide coinvolto in prima persona anche lo stesso Pastore (autore a fine stagione di 13 reti). Egli fu infatti accusato di aver ricevuto vantaggi materiali in cambio di una propria prestazione scadente nella gara incriminata contro il Torino del 5 giugno '27 (nella quale, tra l'altro, uscì prematuramente dal campo causa espulsione) ed anche di aver scommesso, proprio in occasione di quella partita, contro la propria squadra d'appartenenza, la Juventus. Riconosciutegli tali colpe dalla Federazione, Pastore venne, però, a sorpresa graziato e quella stessa estate passò al Milan del suo ex allenatore Herbert Burgess per l'enorme cifra (per l'epoca) di centomila lire, lasciando Torino con un bottino di 55 reti in campionato realizzate in 66 presenze complessive. Mica male! Discrete le soddisfazioni nella sua prima stagione a Milano: la squadra termina al sesto posto il girone finale vinto dal Torino Campione d'Italia e lui mette a segno 13 reti, laureandosi come il più prolifico cannoniere della squadra, ma soprattutto conquistando (ancora a campionato in corso) la convocazione del CT Augusto Rangone per le Olimpiadi di Amsterdam, vale a dire, per la più importante vetrina del calcio mondiale, non essendo ancora nata la Coppa del Mondo. Una vetrina che però non lo vedrà mai protagonista. Piero si metterà al collo la medaglia di bronzo senza mai essere sceso in campo, anche a causa della concorrenza di primissimo piano di due autentiche leggende come Schiavio e Levratto. “Non andavo a genio a Rangone”, spiegherà Pastore, che già l'anno precedente aveva esordito in Nazionale B contro il Lussemburgo mettendo a segno una doppietta. Comunque, per la cronaca, stando ai racconti dei suoi compagni di spedizione, il bel Piero ebbe ampio modo di consolarsi fuori dal campo, rubando il cuore a più di una donzella olandese. Circostanza di cui gli altri azzurri approfittarono prontamente, facendogli trovare ogni sera in camera da letto una rosa rossa, che Pastore pensava provenisse da qualcuna delle sue spasimanti. Ma quando, l'ultima sera, al posto della rosa, trovò sul cuscino un topo morto capì che la realtà era ben diversa... Al termine della stagione, poi, nell'estate del 1928, ecco, quasi per caso, il primo corteggiamento dal mondo del cinema. Il 5 agosto, infatti, Pastore salpa alla volta di New York con il Brescia per prendere parte ad una tournèe nel nuovo continente. Quando gli americani lo vedono in campo, cominciano a chiamarlo Rudy. Inizialmente Pastore non capisce, poi si fa tutto più chiaro: avevano visto in lui, se non il sosia, comunque un ragazzo che ricordava molto Rodolfo Valentino, deceduto due anni prima. Le proposte a stelle e strisce dei roaring twenties sono difficili da ignorare, specialmente per uno come lui. La Paramount lo sottopone in loco ad un provino che supera alla grande. Piero si trova a un bivio: attore o calciatore? Entrambi. “Non me la sentii di lasciare il calcio e per alcuni anni feci sia l'una che l'altra cosa. Il problema era che venivo considerato come uno sregolato nell'una come nell'altra attività, per cui decisi di fare solamente il calciatore”. Eh sì perché, dopo aver terminato la seconda stagione al Milan con la bellezza di 27 reti (stesso numero di quelle messe a segno nell'anno dello scudetto della Juventus), Piero si trasferisce alla Lazio. A Roma. A Cinecittà. E' infatti del 1929 la sua prima pellicola: “Ragazze non scherzate” di Alfred Lind, seguita l'anno successivo da “La leggenda di Wally” di Orlando Vassallo. Sì, insomma, Pastore porta avanti due carriere parallele, quella cinematografica e quella calcistica, che lo vede realizzare 23 reti in 53 presenze biancocelesti nel corso delle prime due edizioni della Serie A a girone unico, che la Lazio conclude rispettivamente al quindicesimo ed all'ottavo posto. Tempo di un fugace rientro al Milan (stagione '31-'32, 13 reti) ed ecco il ritorno nella città eterna, in maglia biancoceleste, nuovamente a contatto con il mondo del cinema. La sua carriera calcistica è però ormai entrata nella fase calante e tra il '32 ed il '33 Pastore si concentra principalmente sulle riprese del suo primo film da protagonista: “Acciaio”. Mica una pellicola qualunque: il soggetto della vicenda, che ha luogo nelle acciaierie di Terni e narra di due operai (uno dei quali interpretato appunto da Pastore) che si contendono la stessa donna, venne infatti commissionato dal regime fascista a Luigi Pirandello in persona. La regia era stata invece affidata al celebre documentarista tedesco Walter Ruttmann. Il risultato? Un film applaudito dalla critica, ma che non riuscì a diventare un classico del cinema italiano. Dal punto di vista calcistico, in quegli anni Pastore gioca poco, pochissimo: 18 presenze (con 9 gol) in maglia laziale tra il '32 ed il '34. Nell'estate di quest'ultimo anno, viene dunque ceduto in Serie B, al Perugia (complice l'arrivo all'ombra del Colosseo di Silvio Piola) in cui milita solamente una stagione, conclusasi, tra l'altro, con la retrocessione in Serie C degli umbri. A trentadue anni, Pastore decide di appendere le scarpette al chiodo per dedicarsi unicamente al cinema. A farlo tornare per breve tempo sul terreno di gioco, però, ci penserà l'anno successivo la Roma, bisognosa di sostituire per qualche settimana gli oriundi Guaita e Scopelli, fuggiti dall'Italia per evitare di venire arruolati nell'esercito in vista dell'imminente Guerra d'Etiopia. Per Pastore quattro presenze ed un gol in giallorosso, l'ultimo della sua carriera, che si conclude con numeri di grande rilevanza: 144 gol in massima serie tra il 1920 ed il 1936 che lo inseriscono a pieno titolo nella top 50 dei marcatori della storia del calcio italiano. Terminata dunque la carriera sportiva, numerose sono le sue presenze in pellicole della seconda metà degli anni '30. Una di esse, quella in “Tre uomini e un cannone” (1939), gli riaprì le porte di Hollywood: “Dopo avermi visto in quel film, gli americani mi fecero firmare un contratto. Andai a Londra ad imparare l'inglese, ma cinque giorni prima della mia partenza per Hollywood scoppiò la guerra ed io tornai in Italia”. Una sfortunata coincidenza che gli fece perdere il treno a stelle e strisce. Un treno che non passerà più. Una volta conclusa la guerra (durante la quale Pastore allenò i Vigili del Fuoco di Roma ed il Tivoli), infatti, fino al 1968, anno della sua morte, Pastore continuerà sì a vivere di cinema, senza però riuscire più ad ottenere un ruolo da protagonista. La ribalta da primo piano, insomma, non arriverà mai. Ma le soddisfazioni non mancheranno ugualmente: tra gli oltre settanta film a cui partecipa nel dopoguerra, infatti, figurano pellicole di grande successo come “Vacanze Romane” (1953), “Attila” (1954), “Ulisse” (1954), “Barabba” (1961), oltre a tre film con Totò: “Totò e Marcellino” (1958), “Arrangiatevi!” (1959) e “Signori si nasce” (1960). Ma su tutti spicca un capolavoro del cinema mondiale: “Guerra e pace”, film diretto da King Vidor del 1956, in cui Piero recitò al fianco di Audrey Hepburn, Henry Fonda e Vittorio Gassmann.Alcuni anni dopo il suo ritiro, il settimanale “Il Calcio Illustrato” gli chiese di tracciare un bilancio della sua carriera di calciatore: “Se rinascessi sceglierei nuovamente la carriera da calciatore, piuttosto che quella da attore. A causa della mia passione per il cinema, sono stato visto come uno “sregolato”. Ho avuto una gamba a pezzi, ma ho resistito fino ad oltre trent'anni. Giocavo con una gamba sola, ma con il cervello. Se devo riassumere la mia carriera in poche parole? Juventus, Milan e Lazio. La Juve è stata per me una vera madre, mi ha curato e mi ha fatto tornare in campo quando ormai non ci credevo più. A Milano ero un piccolo re, tutti mi volevano un gran bene. Ma io sono laziale. E lo dico benché alla Lazio non abbiano mostrato molta comprensione nei miei confronti”. E il Padova? Nemmeno nominato. Ma è in parte comprensibile che la piccola realtà biancoscudata possa essere sembrata ben poca cosa per uno che ha militato nelle più importanti società calcistiche italiane e che ha recitato con alcuni degli attori più famosi di tutti i tempi.
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