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PADOVA GOURMET | La nostra recensione del Ristorante Le Calandre

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Alla scoperta dei ristoranti più interessanti del Veneto, da leggere rigorosamente a stomaco vuoto
Giacomo Stecca
Giacomo Stecca Redattore 

A Sarmeola, una piccola frazione del comune di Rubano, si trova uno dei 12 ristoranti italiani insigniti delle 3 Stelle Michelin: “Le Calandre”. Ci arrivo in pochi minuti di automobile dal centro storico di Padova e parcheggio proprio davanti all’ingresso del locale. La struttura, incastonata nel tipico paesaggio che nel Nord-Est lambisce le Strade Regionali, vista dall’esterno, sembra un’anonima abitazione di provincia, ma più ci si avvicina all’entrata più si capisce, grazie anche a una lastra di acciaio con il logo della famiglia Alajmo e alla statua di un lupo rosso appartenente al movimento della Cracking Art, che si sta per entrare in un posto speciale. Temporeggio un momento, osservando la targa che attesta la presenza del ristorante nella classifica dei World’s 50 Best Restaurants, poi decido di suonare il campanello. La porta si apre, una ragazza mi chiede gentilmente di attendere nell’atrio, davanti a un’open kitchen, e dopo aver controllato la prenotazione mi accompagna al tavolo.

Come immaginavo la parte interna è tutta un’altra storia rispetto a quella esterna e sembra quasi di essere entrati in uno speakeasy, per quanto i due ambienti siano esteticamente differenti. La sala dove mi fanno accomodare, difatti, è estremamente moderna e caratterizzata da linee pulite. Le pareti sono levigate, le luci soffuse e orientate in prevalenza sul table-setting, quasi fosse un’illuminazione teatrale e la tavola fosse il palcoscenico. Non sono un amante della mise en place senza l’uso della tovaglia ma in questo caso approvo appieno la soluzione, ammirando gli splendidi tavoli in faggio e ferro progettati dall’architetto Simone Subitoni. Il legno in questione è un piacere sia da vedere che da toccare e non fa rimpiangere l’assenza di tessuti pregiati. Mi distraggo ancora un po’ nel guardare le posate, i bicchieri e l’atipico centro del tavolo con buco nel mezzo, in cui è adagiato quello che sembra un uovo di struzzo, da cui spunta un bigliettino su cui è scritto il motto del ristorante: “La cucina è paragonabile ad un ago che attraversando ripetutamente piccoli fori tende un filo così sottile e resistente da renderci tutti inconsapevolmente legati”, poi arriva il maître, mi porge l’elegante menù e mi perdo definitivamente nelle invenzioni dello Chef Massimiliano Alajmo.


Si può decidere di provare uno dei percorsi degustazione: Classico, Max o Raf, oppure scegliere alcuni piatti (tre, quattro o cinque) tra quelli facenti parte delle sopracitate degustazioni. Io opto, senza tentennamenti, per quest’ultima soluzione. Come antipasto scelgo di assaggiare il Cappuccino Murrina, la variante del ben più noto Cappuccino di seppie al nero, entrato nel menù de “Le Calandre” nel lontano 1997. Questa versione più recente, che è un omaggio di Max alla città di Venezia e alle Murrine, arriva al mio tavolo carica di aspettative e non le delude nemmeno in minima parte. La crema di patate al profumo di erba cipollina che mi ritrovo ad assaporare è semplice ma allo stesso tempo avvolgente e i frutti di mare (seppie e ricci) le danno una marcia in più. Gli ingredienti di origine vegetale (alga spirulina e rapa rossa) le conferiscono diverse sfumature di colore e ne fanno un piatto visivamente accattivante.

Solitamente, dopo un inizio così positivo, c’è il rischio che la portata successiva non sia all’altezza di quella che l’ha preceduta, ma qui non siamo in un ristorante qualsiasi, bensì in un locale con 3 stelle Michelin, e se possibile, il piatto che segue è persino migliore del precedente. Il capolavoro in questione è il Risotto Passi d’Oro. Il titolo della pietanza prende spunto da una scultura dell’artista Roberto Barni, presente sulla facciata destra della Galleria degli Uffizi a Firenze. L’opera, in oro e bronzo, è dedicata alle cinque vittime di un attentato mafioso occorso, proprio in quel punto della città, nel maggio del 1993 e ha colpito molto Massimiliano Alajmo, soprattutto per la sua bellezza, la quale riesce a superare e rendere poetica anche una tragedia di tali dimensioni.

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Il Risotto Passi d'Oro de Le Calandre

Lo Chef accosta all’interno di questo risotto, che arriva adagiato su una ciotola fatta su misura, accompagnato da una cartolina celebrativa, le tenebre date dalla liquirizia (parte più radicale della pianta), alla luce e al colore intenso dello zafferano con i suoi pistilli (parte più estrema della pianta e più vicina al sole) e capovolge nel piatto quella che è la loro posizione in natura . Il riso giallo, simbolo dell’oro nel linguaggio gastronomico, si svela nella sua brillantezza quando tocca la polvera tenebrosa e racconta la storia dell’Uomo che è da sempre in bilico tra una parte luminosa e una oscura, tra lo yin e lo yang. A livello di gusto, credo sia il miglior risotto che io abbia mai incontrato sul tavolo di un ristorante. La sensazione di esplosività che compare in bocca alla prima cucchiaiata è difficile da descrivere con le sole parole. La consistenza è impeccabile e l’aggiunta di alcune gocce di limone gli danno quella leggera nota acida che lo rende bilanciato. Mirabile la sapienza nel saper dosare due spezie così diverse tra di loro.

Il primo pensiero che mi balena in testa è che dopo questo assaggio strepitoso potrei già alzarmi da tavola e andare a casa felice. Ma non è finita qui. Ho ancora due piatti da provare e il prossimo ha un nome davvero molto accattivante: Osso incendiato con bruschetta di calamari ai ricci di mare e caviale. Si tratta dell’osso del femore di un vitellone che viene arrostito al forno con delle essenze aromatiche, incendiato con erbe seccate e servito accanto a un crostino di pesce. Ci si accorge dell’arrivo di questa portata mastodontica, prima ancora della sua entrata in scena, grazie al profumo che inizia a pervadere tutta la sala. Questo è di gran lunga il piatto più spettacolare visto fino a ora.

La parte che va mangiata è quella del midollo (ricoperto di pane fritto) e per compiere l’operazione mi viene consegnato un cucchiaino. Pochi bocconi, ma di un’intensità incredibile. Dopo questa leccornia da capogiro arriva un piccolo intermezzo: la degustazione di frutta aromatizzata, prima di finire in bellezza con il dolce scelto. Non faccio tempo a finire il calice di Barolo, che mi è stato servito in abbinamento con l’osso, e a ordinare una coCalandre (bibita biologica dal nome geniale, acquistabile, come tanti altri prodotti utilizzati  dagli Alajmo, nel loro negozio di famiglia, posto dall’altra parte della strada) che mi trovo sotto il naso il dessert: la mozzarella di mandorle. A prima vista sembrerebbe un latticino originale, invece è una bolla dolce di mandorlato condita con olio extravergine di oliva, basilico, origano, olive e peperoncino.

In cucina vi sono dei piatti geniali e fino a quando non li hai visti o gustati, non puoi immaginare che possano esistere. Questo è uno di quelli. La cosa che più mi ha colpito della portata è stato il suo profumo. Uguale, al cento per cento, a quello di un fiordilatte. Impressionante. In Veneto, a tavola, vale un detto: “La bocca non è stracca, se non sa di vacca” e, siccome la mozzarella di mandorle, per quanto molto realistica non è un vero e proprio formaggio, decido di terminare al meglio il pranzo chiedendo di poter assaggiare qualche pezzo dal meraviglioso carrello dei formaggi che ho adocchiato entrando in sala un paio d’ore prima. Vengo accontentato con un piatto di prodotti italiani di rilievo (Blu di pecora e Gorgonzola maturo piccante spiccano sugli altri).

Ora la bocca sa effettivamente di cacio, ed è affaticata, tanto da farmi capire che è giunto il momento di concludere il pasto. Che cosa posso dire senza risultare banale? “Le Calandre” prima di essere un ristorante è un luogo. Un luogo in cui comprendere che la cucina è inclusiva e non esclusiva. È integrazione, tradizione, conoscenza e cultura. Non è competizione, come ci fanno credere tanti programmi televisivi, più o meno celebrati. E non è nemmeno velocità. Ma lentezza. Massimiliano Alajmo lavora su tutti e 5 i sensi, cercando di portarci con calma verso il sesto, che per lui è legato ai ricordi dell’infanzia. Lo Chef padovano prepara dei piatti relativamente semplici che rivelano però una strepitosa padronanza della tecnica tesa ad esaltare le eccellenti materie prime. Il servizio in sala è professionale e meticoloso ma allo stesso tempo accogliente e informale. Questo pranzo è stato un’esperienza appagante, formativa e, a tratti, divertente e ironica. Qui, in via Liguria 1, l’attenzione ai dettagli è altissima e nulla è lasciato al caso. Motivo per cui ritornarci sarà un piacere.

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