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OLTRE i 90′ | L’appetito vien mangiando, i blucerchiati all’Euganeo

OLTRE i 90′ | L’appetito vien mangiando, i blucerchiati all’Euganeo

A spasso tra i ricordi di un giovane tifoso degli anni ’90

Giacomo Stecca

Si dice che l’appetito venga mangiando. E credo che mai frase sia stata più azzeccata per spiegare quello che provai subito dopo Padova-Inter, il mio primo match di serie A.

Dopo quella clamorosa vittoria dei Biancoscudati contro i Nerazzurri di Ottavio Bianchi, a cui avevo avuto la fortuna di assistere, fui preso da una strana e inspiegabile euforia. Non feci che parlare di quell’evento per due giorni ininterrotti con i miei compagni di classe, che non erano ancora mai stati allo stadio e quindi pendevano dalle mie labbra, ma soprattutto con i miei genitori che non ne potevano più di sentirmi citare in ogni discorso i miei nuovi super-eroi: Bonaiuti, Franceschetti e RosaCol senno di poi posso immaginare che mio padre si fosse pentito di avermi fatto scoprire quel magico mondo.

Il giovedì mattina lessi su quella Bibbia Rosa dal nome di “Gazzetta dello Sport” che per uno strano caso il Padova avrebbe giocato in casa anche quella settimana.

“Papà mi ci porti?”

“Ho qualche altra scelta?”

Gara del 29 Gennaio 1995: Padova-Sampdoria.

“Sampdoria… Che città è?”

A questa domanda devo dire che i miei genitori risero moltissimo. Io un po’ meno e non capii il motivo di quell’ilarità nei miei confronti, fino a che mio padre non si mise seduto a tavola e con calma mi spiegò tutto. La Sampdoria era una delle squadre di Genova, ma a differenza del “Genoa Cricket and Football Club”, team apparso nel capoluogo ligure nel 1893, si chiamava con un nome così particolare perché nacque il 12 Agosto del 1946 (mio padre continuava a ripetermi fiero che quello era anche il suo anno di nascita) dalla fusione tra due società genovesi: La Sampierdarenese e la Andrea Doria. La prima era già iscritta in serie A ma si trovava in condizioni economiche davvero molto precarie, mentre la seconda era stata esclusa dalla massima serie ma disponeva di un’ampia liquidità ed aveva effettuato degli acquisti di primissimo livello. Le due società decisero quindi di unirsi fornendo l’una il titolo sportivo, l’altra le risorse sportive e finanziarie e fondendo i due nomi.

Questo aneddoto mi aveva già incuriosito abbastanza e ad alimentare il fascino verso questa squadra si aggiunsero i colori che la rappresentavano.

Entrato per la seconda volta in vita mia allo stadio Euganeo, accompagnato questa volta oltre che da mio padre anche da mio zio, appassionato di basket ma per quella domenica sacrificato al Dio del Calcio, rimasi incantato da quell’incredibile schema di colori che componeva la divisa da gioco della Samp.

Nel 1946 si decise che le casacche di quel neonato club avrebbero dovuto rispettare la tradizione di entrambi i rami fondatori. La maglia della Sampierdarenese bianca con fascia rossonera andò a mescolarsi con l’uniforme dell’Andrea Doria, ripartita  verticalmente a metà tra bianco e blu. Il risultato finale, che potevo vedere sotto i miei occhi quel freddo pomeriggio di gennaio, era una maglia blu attraversata da una particolare fascia colorata in cui le tinte andavano a combinarsi nell’ordine in blu-bianco-rosso-nero-bianco-blu, al centro della citata fascia capeggiava lo scudo di San Giorgio, segno di appartenenza di una squadra genovese nata per volontà di fondatori genovesi. Per via del particolare disegno delle divise questo mix di colori venne definito “blucerchiato” e così vennero chiamati i giocatori della Samp: “I Blucerchiati”.

Ed erano proprio 11 Blucerchiati che in quella domenica 29 Gennaio 1995 stavano sottomettendo il “mio” Padova. Infatti non fece tempo a passare neppure un quarto d’ora da quando io, mio padre e mio zio ci eravamo accomodati sugli spalti che già il risultato era di 1 a 0 a favore della squadra ligure. A farla passare in vantaggio fu l’inglese ex Juventus David Platt con un rasoterra perfetto su un passaggio smarcante di tacco del capitano e fuoriclasse jesino Roberto Mancini. E sempre Platt, circa una decina di minuti più tardi, segnò un bel goal, che fu però annullato dall’arbitro Nicchi per fuorigioco. Anche se la Sampdoria aveva dominato in lungo e in largo, allo scadere del primo tempo, il Padova ebbe l’opportunità di pareggiare con un tiro del croato Goran Vlaovic che però l’uomo ragno Walter Zenga neutralizzò con bravura ed esperienza.

Tornati in campo dopo il canonico quarto d’ora di pausa gli uomini di Sergio Santarini e Sven Goran Eriksson misero il turbo e in venticinque minuti infilzarono per ben tre volte la rete del povero Bonaiuti, prima con Riccardo Maspero, poi con Mancini e alla fine con un Euro-goal del centrocampista ex Stella Rossa Vladimir JugovicUn giovane ragazzo di vent’anni di nome Gianluca Zattarin cercò invano di tenere vivo il Padova con un preciso goal di testa, ma purtroppo quando il pallone finì alle spalle di Zenga mancavano solo tre minuti alla fine e la sua passionale e sentita esultanza fu più per il suo primo goal in serie A che per altro. Al fischio finale dell’arbitro Nicchi lo stadio Euganeo era piombato improvvisamente in un silenzio di tomba, delle 14 mila persone presenti si sentivano in lontananza solo le urla e i cori dei pochi tifosi della Sampdoria presenti nella curva degli ospiti.

Ricordo nitidamente che per la prima volta in vita mia, allo stadio, vidi la tristezza e la delusione nel volto delle persone. Se nella partita precedente contro l’Inter, preso anche dall’euforia dell’epica vittoria, avevo capito come fosse sbocciato un amore senza fine verso il mondo del pallone, dopo questa bruciante sconfitta interna, capii, ascoltando quel silenzio pesante, percependo le emozioni dentro gli occhi dei tifosi più anziani e la rabbia in alcune loro frasi che non avrei potuto ripetere a scuola il lunedi mattina, come per molti quello non fosse solo un gioco.

Quell’ora e mezza la domenica pomeriggio per molte persone non era solo un hobby. C’era qualcosa di più oltre i 90’. C’erano emozioni,sofferenza, gioia, dolore,empatia… Una metafora perfetta della vita.

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